Intervista a Francesco Sinopoli Segretario della Flc CGIL: Il Pnrr non basta, serve anche lo Stato

Le risorse stanziate dall'Europa rappresentano una grande occasione. Ma per il segretario generale della Flc Cgil, Francesco Sinopoli, ci sono alcune materie su cui sono necessari investimenti nazionali: come ad esempio l'aumento degli organici

Collettiva.it

Stefano Iucci

La quarta missione del Pnrr stanzia complessivamente 31,9 miliardi di euro per istruzione e ricerca. Una cifra certamente considerevole che, se ben impiegata, può essere una leva molto importante anche per affrontare alcuni nodi irrisolti del nostro Paese e che hanno un ruolo cruciale anche per pensare a uno sviluppo di qualità. Ne abbiamo discusso con Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil. “Partirei da un dato – argomenta –. Siamo in una fase straordinaria e non era scontato che l’Ue, per la fragilità del suo progetto costitutivo e avendo avuto per 30 anni una governance economica conservatrice – pensasse a un intervento di questa dimensione”. 

Siete dunque soddisfatti della quantità delle risorse stanziate?

È chiaro che gli investimenti risentono dei tanti condizionamenti economici che l’Ue impone. Per intenderci: gli Usa di Biden hanno messo in campo ben altre risorse, ma sappiamo bene che la Federal Reserve batte moneta senza doversi giustificare in alcun modo. Lo fa perché, in una situazione come questa, ritiene che la questione centrale sia aumentare la spesa pubblica. In ogni caso, fatta la tara con questi limiti, il Pnrr è un’occasione storica che il nostro Paese non può perdere e la Cgil deve costruire le condizioni per essere protagonista nell'orientamento che si vuole dare a questi investimenti. E questo vale per tutte le missioni del Piano.

E se ci spostiamo sui contenuti?

Anche in questo caso limiti ci sono. Non sono sorpreso che anche nella Missione 4 si possa leggere su tanti versanti – e neanche tanto in controluce – un’impostazione neoliberista. Ad esempio quando si decide di allargare la sperimentazione dei licei quadriennali a mille scuole. Una cosa che dal nostro punto di vista non ha alcuna logica. Il punto per noi non è ridurre la durata della scuola, ma porsi il problema di come la si cambia nel complesso. 

E come la si cambia?

Aumentando il tempo scuola, portando l’obbligo a 18 anni e rendendo obbligatoria la scuola dell’infanzia, ad esempio. Tuttavia, accanto a limiti di questo tipo, nel Piano ci sono misure che da sempre abbiamo considerato strategiche per la scuola italiana. Penso, appunto, all’aumento del tempo scuola a partire dal Sud, che è una nostra battaglia storica e che ovviamente deve realizzarsi ovunque: in tutto il Paese e in tutti gli ordini e gradi di istruzione. Aumentare il tempo scuola è importante perché consente di rispondere ai bisogni cognitivi e di apprendimento dei ragazzi e delle ragazze, combatte la dispersione e dà anche l’opportunità di fare innovazione didattica. Di porre le basi, cioè, per pensare a una scuola diversa. Perché, va detto, a noi la scuola di prima della pandemia, quella gentiliana, non è che ci piaceva. Bisogna cambiarla, la scuola, proseguendo sulla strada iniziata tanti anni fa, quando si pensavano e facevano riforme serie. Insomma: non dobbiamo farci intimidire da alcune letture neoliberiste di Bruxelles o del nostro Governo, ma andare all'attacco dal punto di vista progettuale e programmatico con un’iniziativa politica. L’occasione è troppo importante per lasciarsela sfuggire.

Se è così, però, se i cambiamenti devono essere radicali, il Pnrr non basta...

Esattamente. Le risorse stanziate dall’Europa andranno poi collegate alla spesa corrente, cioè agli investimenti diretti che vogliamo fare su questi capitoli. 

Per esempio?

Se vogliamo davvero aumentare il tempo scuola, non basta avere spazi adeguati, a partire dalle mense, i cui investimenti sono previsti nel Pnrr. Bisogna aumentare gli organici e quindi modificare una politica del personale che oggi accompagna al crollo demografico la riduzione del numero delle persone che nella scuola operano. Non possiamo accettare l’idea che sia il calo demografico a  consentire l’aumento del tempo scuola tra 15 anni. Dobbiamo aumentare subito il tempo scuola e adottare una politica anticlica rispetto a uno spopolamento di intere zone del paese che il dimensionamento scolastico e la riduzione degli organici non hanno fatto altro che accompagnare e accelerare, a partire dal Sud e dalle aree interne. Sono, queste, tutte materie di spesa statale. Così come occorre intervenire sulla diminuzione del numero di alunni per classe. E ancora: per quanto riguarda l’università, nel Pnrr è stato accantonato l'allargamento della no tax area e le borse di studio si sono ridotte. Ebbene, anche questi sono temi di spesa corrente e pertanto devono stare nel bilancio dello Stato. 

Una parte importante del Pnrr è dedicata alla ricerca. Qual è il vostro giudizio su questo capitolo?

Nel Piano è sicuramente sacrificato un nodo fondamentale: quello degli investimenti nelle scienze fondamentali, nella ricerca di base. Ed è grave, perché si tratta proprio di quella scienza che serve ai grandi bisogni dell’umanità. L’esempio più ovvio è quello dei vaccini: dopo che hai con tagli progressivi indebolito i laboratori pubblici di ricerca, sono rimasti solo i privati. Anche in questo caso, dunque, bisogna accompagnare i progetti del Pnrr con investimenti dello Stato italiano. Come sta facendo la Francia, che ha capito di essere ormai ben lontana da una leadership mondiale nella ricerca, dove dominano Usa e Cina. In Italia risultati e capacità non mancano, ma bisogna porsi il problema di come rafforzare la nostra capacità di ricerca scientifica.

C’è un tema che è trasversale a tutto il settore della conoscenza: quello delle grandi quote di lavoro precariato che ancora assorbe. Solo nella scuola quest’anno c’è stato un record: 200.000 supplenze. Ma anche università e ricerca non se la passano bene da questo punto di vista. Cosa bisogna fare?

Occorre chiudere questa stagione con un processo rapido di stabilizzazione e poi pensare a un sistema di reclutamento a regime che dia risposte certe ai lavoratori e al sistema, evitando di creare nuove sacche di precarietà.

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