Un contributo a una riflessione e a un dibattito sulla questione “valutazione”.
L’abolizione del voto demolisce la sua presunta “oggettività”, ampiamente smentita da studi e ricerche e sposta l’attenzione sui processi che sono a monte della valutazione degli apprendimenti. Spetta ai docenti prendere in mano, come comunità professionale, obiettivi, strumenti e criteri per una valutazione condivisa a partire dalla programmazione didattica fino alle valutazioni periodiche e finali.
L’abolizione del voto e il mestiere di insegnare
“Da noi il sistema è fondato sul principio considerato sacro della proprietà e dell’iniziativa privata, la quale ha come unica motivazione il profitto e come conseguenza la competizione… il profitto lo troviamo sulla pagella espresso in voti”. E poco più avanti: “Lo scolaro, in una scuola autoritaria fondata sui voti, studia perché ci sono i voti. Se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il castello crolla…”.
Mario Lodi scriveva queste parole il 2 ottobre 1964. Quel libro, Il Paese sbagliato, è uno straordinario diario di bordo di una esperienza umana, politica e professionale ancora oggi tutta da leggere. Certo, la scuola e la società di quel tempo non sono le stesse di oggi.
La scuola di cinquanta anni fa fu duramente selettiva nei confronti delle classi “subalterne”; non è un caso che Don Milani, Bruno Ciari, Mario Lodi, abbiano dato parola ai figli dei contadini e degli operai, a quelle classi sfruttate e relegate ai margini, non di rado represse duramente. L’esperienza educativa di Mario Lodi è dentro questa fase durissima dello scontro sociale in Italia e ne trasuda tutta la drammaticità, etica e umana. Quei ceti sociali così duramente colpiti, entrano con i loro figli nella scuola media unificata che nasce nel 1962 e si ritrovano in un territorio straniero. Linguaggio, comportamento, conoscenze, valori di riferimento, libri di testo, sono un altro mondo rispetto al quale quei figli si sentono disadattati. È “il Paese sbagliato” di cui ci parla Mario Lodi. In quel Paese, i docenti non sono, in larga misura, dalla parte delle classi più disagiate; sono quelli che
Marzio Barbagli chiamerà “le vestali della classe media”, duramente sferzati dalla invettiva pedagogica di Don Milani. L’oggetto sono i professori più che i maestri, anzi, le maestre, anche a quel tempo viste come le tessitrici silenziose di una nuova cittadinanza che è in primo luogo battaglia difficile contro la piaga dell’analfabetismo ancora dilagante nel Paese.
Non è un caso che in ogni occasione Tullio De Mauro le ricordasse con affetto e gratitudine, che facciamo nostri. E non è un caso, io credo, che Don Milani scrivesse nel 1967 una ”lettera a una professoressa”, non a una maestra.
Ma la selezione di classe non è stata ancora sconfitta, neppure nella scuola dell’obbligo sancita dalla Costituzione. E quando diciamo “selezione di classe” non ci riferiamo in primo luogo alle bocciature o abbandoni che pure persistono anche se più elegantemente definite “dispersione”. Ci riferiamo soprattutto alla selezione silenziosa, quella fatta di formale passaggio alla classe successiva pur nella consapevolezza che lo studente è ben lontano da aver acquisito quelle competenze che avrebbe dovuto poter apprendere. Il limite che non possiamo più accettare della scuola del nostro tempo non è solo nella quantità dei ragazzi che si perdono ma soprattutto nella resa a una scuola semplificata, ridotta, che ha finito per abbassare gli obiettivi di insegnamento (e quindi di apprendimento) anziché mettere in discussione proprio il suo modo di insegnare: l’organizzazione, i conten